LUTTO ED ABBANDONI NEGLI STATI LIMITE

 

La perdita di una persona amata comporta la necessità di svincolare l’investimento affettivo (libido) dal defunto e spostarlo su un oggetto sostitutivo. Tale lavoro, di difficile e faticosa esecuzione, è intralciato dall’azione di alcuni meccanismi difensivi e transita necessariamente per una fase di ritiro narcisistico, cioè di ritorno della libido sull’Io. Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto. Quando l’esame di realtà dimostra che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutto l'affetto sia ritirato da ciò che è connesso con tale oggetto, contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare che non si abbandona volentieri una posizione affettiva, definita dagli psicoanalisti libidica, neppure quando si dispone già di un sostituto che inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraneamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d'investimento; nel frattempo l'esistenza dell'oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Risulta particolarmente importante affermare che il processo di elaborazione del lutto è molto complesso e sicuramente influenzato dall’organizzazione di personalità corrispondente. Più si scende in basso sull’asse del livello di funzionamento e più si abbassano i livelli di mentalizzazione, i processi di simbolizzazione, la capacità di decodificare le emozioni, cresce l’intensità dell’angoscia per cui l’elaborazione del lutto risente proporzionalmente di tali variabili. Noi ci occuperemo di “lutto ed abbandono negli stati limite”. Jean Bergeret, psicoanalista francese, definì il concetto di “stato limite” come organizzazione di personalità stabile e distinta dalle nevrosi e dalle psicosi, ma certamente instabile e incompiuta in senso strutturale. Sorta di prolungata adolescenza, la condizione dello “stato limite” mostra una tendenza costante allo scompenso depressivo maggiore, una grande necessità di appoggio e di sostegno (anaclitismo) e la frequente possibilità di scivolare in uno scompenso durevole, cioè in una sintomatologia psichiatrica conclamata e caratteristica, destinata a emergere dopo un rilevante trauma affettivo, nei termini stabilizzati di una nevrosi fobica o ossessiva, di uno stato depressivo, di una grave regressione ipocondriaca. L’osservazione clinica ci dice comunque che tali pazienti lamentano una forte ansia: cronica, diffusa e libera, talvolta senza idee precise che l’accompagnino, peraltro organizzata in fobie per lo più gravose e inusuali, non molto alleviate dai necessari comportamenti evitanti, ma intense e persistenti come un forte peso che grava costantemente sulla vita del paziente. Si aggiungono spesso meccanismi ossessivi assai elevati, che appaiono una massiccia difesa utile al paziente per non incontrare angosce di livello maggiore, ma che ne parassitano il comportamento quotidiano. Sono frequenti gli atti di impulsività e l’esposizione a comportamenti rischiosi, che colpiscono per la loro gravità e per il fatto di mantenersi invariati anche nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta. L’incapacità di contenere l’angoscia e di controllare gli impulsi si affianca a un’incapacità di “sublimare” gli stessi impulsi, che devono essere costantemente agìti, anche in maniera egodistonica (spese incontrollate, tossicomania). Compaiono, pur senza rappresentare il quadro clinico principale, tendenze sessuali perverse e polimorfe, che, quando presenti, documentano la non avvenuta integrazione nel soggetto di un modello maturo e stabile per identificare la propria immagine sessuale. La scissione è il meccanismo difensivo più consueto del paziente borderline. Essa tende a mantenere la primitiva scissione dell’Io, propenso a distinguere, nelle fasi di sviluppo pregenitale, gli oggetti in totalmente buoni o cattivi. Il nucleo originario dell’Io si fonda attorno a un nucleo di oggetti sentiti come “buoni”, rigettando le introiezioni negative a scopo protettivo. Questo processo, che non consente al paziente di tollerare l’emergere di sensazioni negative o il contatto con “oggetti” interni cattivi (vuoto, rabbia, dilazione, attesa, angoscia, insoddisfazione, si formerebbe, secondo Kernberg, per un eccesso di frustrazione dei bisogni pulsionali primari del bambino, un eccesso di frustrazione in una fase dello sviluppo, in cui egli non è in grado di tollerarla. La scissione servirebbe, così, a tentare di fondere in modo regressivo l’immagine del Sé e dell’oggetto, unico modo per ottenere l’assoluto soddisfacimento. Nel paziente borderline, gli aspetti pulsionali aggressivi non vengono né integrati né tollerati, restando scissi al di fuori dell’Io. Questo fa sì che l’aggressività infantile, non accolta né elaborata, non divenga una pulsione utilizzabile in termini maturi dall’adulto, tanto da dar luogo ad atti aggressivi ed autoaggressivi piuttosto gravi, ove il paziente, dopo essersi lesionato, può avvertire perfino il sollievo della propria tensione emotiva o un senso di espiazione per essersi sentito “cattivo”, vicino cioè a quella parte di Sé fortemente scissa in cui è contenuta la rabbia aggressiva. Altro meccanismo utilizzato è rappresentato dall’idealizzazione primitiva rivolta agli oggetti esterni, soprattutto intesi come oggetti totalmente buoni attesi da tempo. Questa percezione deve servire a proteggere l’Io da frustrazioni eccessive in senso negativo, fino a quando l’oggetto idealizzato non si rivelerà dotato di caratteristiche imperfette. Ciò potrà essere intollerabile per il paziente, che giungerà a rifiutarlo, mostrando a quel punto il prevalere del meccanismo di svalutazione. Ciò si riscontra solitamente nelle relazioni terapeutiche, dove il paziente esercita una lunga operazione di messa alla prova del psicoterapeuta e della sua tenuta del setting, in una sorta di attacchi (assenze, acting, ritardi, interruzioni, svalutazioni) volti a esprimere innanzitutto una modalità relazionale e allo stesso tempo a sperimentare quanto grande sia la disponibilità per l’accoglienza e lo spazio dell’empatia. La strutturazione del Super Io è ostacolata da un Ideale dell’Io ipertrofico, che espone il soggetto a dinamiche di onnipotenza e di frustrazione, con conseguente senso di vergogna talora annichilente. E’ presente un forte anaclitismo (bisogno d’appoggio) che rappresenta la modalità di relazione oggettuale del paziente: la necessità di non perdere il contatto con l’oggetto totalmente buono e rassicurante, a fronte delle sue fortissime angosce di abbandono, di perdita di senso e di valore, di svuotamento. Masterson e Rinsley (1975) sostengono che la “causa” del disturbo borderline di personalità è riconducibile ad una fissazione alla sottofase del riavvicinamento, ma a differenza di Kernberg, tale fissazione è dovuta ad una reale incapacità della madre a svolgere adeguatamente una buona funzione genitoriale e non ad un eccesso di aggressività costituzionale. Le madri dei pazienti borderline sono esse stesse affette da un disturbo borderline di personalità e, pertanto, sono incapaci di favorire nel bambino il normale processo di separazione-individuazione. Tali madri invierebbero al figlio una sorta di “messaggio implicito”, in cui viene affermato che la conquista di una maggiore autonomia condurrà ad una perdita dell’amore, del sostegno e della protezione della madre nei suoi confronti. Le madri dei soggetti borderline hanno uno stile di accudimento iperprotettivo che è responsabile di un legame madre-figlio ancora di natura simbiotica. Di conseguenza, il paziente borderline sperimenta un’intensa depressione abbandonica ogniqualvolta si confronta con la prospettiva di una separazione da una figura significativa del proprio ambiente di vita. Il soggetto borderline si trova di fronte ad un conflitto, quello tra il desiderio di essere autonomo, ma solo e senza il sostegno materno, e il bisogno di ricevere l’amore e la protezione genitoriale rinunciando, però, alla conquista della propria individualità. Il paziente borderline si servirebbe di difese primitive, come la scissione, proprio per proteggersi dalla possibilità di una depressione abbandonica o di un’indifferenziazione Ipersensibilità all’abbandono: responsabile delle intense oscillazioni emotive ed affettive che caratterizzano le relazioni di tali soggetti. Questi sono spesso sottoposti a bruschi cambiamenti di umore, che oscillano da stati depressivi a condizioni di intensa irritabilità, associati a volte a sentimenti di profonda ansia. Gesti autolesivi e tentativi suicidari a cui si accompagna una particolare tendenza a godere degli atti di automutilazione: frequentemente possono procurarsi ferite e bruciature, riferendo di non avvertire alcun dolore, ma solo una sensazione di sollievo dall’ angoscia e dalla rabbia (Bellodi, Battaglia, Magone, 1992). Sono frequenti rotture dell’esame di realtà e distorsioni cognitive nel contesto interpersonale, che si manifestano sottoforma di episodi deliranti di abbandono da parte delle figure più significative. In conclusione, questi pazienti “sono persone di cristallo, delicate da toccare, facili a rompersi e pericolose quando sono in frantumi” (Bellodi, Battaglia e Migone, 1992). Bergeret ha individuato un punto di fissazione della libido del paziente borderline. Occorre considerare una fase dello sviluppo psichico, definito “divided line” da Abraham (1921) e Fliess (1950). E’ questo un importante organizzatore della vita psichica e segna il confine tra il primo e il secondo stadio anale, tra la fase, cioè, dell’espulsione e quella del trattenimento. Fissazioni
stabili anteriori a questa linea danno luogo a organizzazioni psicotiche, comprendendovi anche la paranoia, che pare avere un’attinenza con una fissazione assai prossima, ma sempre antecedente, la “divided line”. Secondo Bergeret, essa rappresenta il primo organizzatore della vita psichica del soggetto, gli altri due sono il complesso di Edipo e l’adolescenza. Perché insorga una personalità limite, occorre, dunque, un trauma affettivo (cioè un eccesso di carica pulsionale che giunga all’Io in un’epoca in cui questo non sia in grado di farvi fronte e che determini nell’Io un esaurimento funzionale in vista di un adattamento che risulta impossibile), detto “disorganizzatore precoce”, nell’epoca compresa tra il secondo stadio anale e l’instaurarsi del complesso di Edipo. Ciò impedisce alla fase edipica di instaurarsi come secondo organizzatore della vita psichica e inserisce il soggetto in una condizione che Bergeret definisce “tronco comune degli stati limite”, che rappresenta l’avvio della struttura borderline. Il soggetto entra, perciò, in una pseudo-latenza precoce, evitando i contenuti libidici dell’Edipo, pseudo-latenza che coprirà l’intera adolescenza. Il soggetto è asintomatico, tanto più che il trauma affettivo precoce passa inosservato. La sua organizzazione psicologica contiene comunque qualcosa di immaturo, di incompleto, di provvisorio, anche a fronte di un’adolescenza priva di contenuti libidici o sessualizzati. Il tronco comune va incontro a evoluzioni diverse. Una prima possibilità è quella di una persistenza di questa organizzazione non strutturata, tesa alla conservazione di un equilibrio narcisistico difensivo e regressivo, che può presentarsi come condizione caratteriale o perversa. Se, invece, come sovente accade, interviene un secondo trauma, il “disorganizzatore tardivo”, solitamente un trauma affettivo, una frustrazione degli elementi ideali del soggetto o una perdita vissuta in termini di abbandono, emerge una fortissima crisi d’angoscia, che segna l’esordio della sintomatologia conclamata del paziente, una condizione destinata a restare costante. A questo punto il tronco comune si ramifica e lascia esprimere diverse forme della condizione borderline, tutte fondate su analoghi presupposti psicodinamici, ma fenomenologicamente espresse in modi diversi. Un’evoluzione è quella verso la depressione melanconica o il disturbo bipolare. Altri soggetti sviluppano una sintomatologia ansioso-fobica assai grave. In entrambi è presente Altri ancora precipitano in una gravosa regressione ipocondriaca, dove il corpo viene investito in senso protettivo, autoconservativo e narcisistico, per evitare ulteriori rischi di scompenso depressivo. In tutte le forme di espressione sintomatologica descritte, il rischio dello scompenso depressivo, il senso del pericolo e della perdita, rappresentano l’aspetto unificante e caratteristico della sofferenza nella condizione borderline. Il modo di interagire e di stabilire relazioni da parte del paziente borderline rispecchia una condizione di dipendenza passiva e insieme di manipolazione dell’oggetto, che in tal modo egli tenta di non perdere, di controllare e dominare, rispecchiando in ciò una modalità di rapporto con i genitori introiettati in epoca pre-genitale e restando sempre come un “piccolo dipendente da due grandi”. Si tratta di una sorta di rapporto diverso da quello “triangolare” dell’Edipo; è una “triade narcisistica”, secondo un’espressione di Grunberger, che rispecchia non già il rapporto maturo di conquista della relazione d’oggetto, ma una necessaria e costante necessità di rinforzo e sostegno. In ciò, il paziente resta a un livello intermedio anche rispetto alle posizioni descritte da Melanie Klein: schizo-paranoide e depressiva, senza, cioè, la possibilità di intervento di meccanismi riparativi. Da questo stato, tra l’altro, consegue l’impossibilità della strutturazione di un Super-Io maturo, mentre l’Ideale dell’Io resta ipertrofico a esercitare continue richieste, la cui delusione induce costanti possibilità di scompenso depressivo. I meccanismi difensivi principali osservati da Bergeret sono la scissione, l’evitamento e la proiezione. La scissione non riguarda l’Io, ma solo l’oggetto, che deve essere conservato come interamente buono. L’evitamento è presente come elemento massiccio di protezione nei borderline con fobie, che sono solitamente gravi, intense e limitanti. In questa successione di evitamento e fobia si riuniscono anche meccanismi proiettivi (proiezione dell’angoscia, cioè dell’oggetto interno negativo) e anaclitici (dipendenza dall’oggetto buono). Il processo terapeutico con il paziente borderline è lungo e complesso. Nell’espressione “lavoro del lutto”, introdotta da Freud nel lontano 1915 in “Lutto e Melanconia” (Sigmund Freud, Lutto e melanconia, OSF Volume 8°, Boringhieri, 1980) è insita la nozione di processo energetico di trasformazione che è strettamente connessa a quella di elaborazione psichica che indica il lavoro compiuto dalla mente per dominare il surplus energetico derivante dall’evento traumatico attraverso lo stabilirsi di operazioni di connessione e vincolamento. L’esperienza del lutto è ovviamente una esperienza di perdita: nella nostra esistenza vi sono alcuni oggetti su cui abbiamo fatto degli investimenti libidici.
Improvvisamente qualcuno viene a dirci che abbiamo perso tutto il patrimonio che avevamo depositato su quell’azione! Ci sentiamo distrutti e amputati: un grave furto energetico è stato perpetrato ai nostri danni. Nessuno accetta mai volentieri una perdita e usualmente si ricorre al rigetto della realtà; è proprio l’esame di realtà che ci dice che quell’oggetto non esiste più e che quindi la libido investita dovrà essere sottratta dall’oggetto in questione. Un lavoro doloroso e impegnativo che le persone tentano di rimandare o evitare intrattenendo rapporti sempre più stretti con l’immagine interna dell’oggetto perduto.

BIBLIOGRAFIA

American Psychiatric Association: DSM IV. Ed. italiana. Masson 1996
Jean Bergeret: Depressione e stati limite. Il pensiero scientifico ed. 1976
Jean Bergeret: La personalità normale e patologica. Ed. Cortina 1984
Otto Kernberg: Sindromi marginali e narcisismo patologico. Ed. Boringhieri 1978
Otto Kernberg: Disturbi gravi della personalità. Ed. Boringhieri 19